VERDI: Attila (Maggio Fiorentino)
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Video consigliato come guida e preparazione all’ascolto dell’opera: Riccardo Muti presenta Attila al pianoforte
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2 CD
Maggio Live, Riccardo Muti Edition
in occasione del 50° anniversario del debutto di Riccardo Muti al Teatro del Maggio
Durata totale: 1 ora e 43 minuti
Made in Italy
Descrizione
Firenze, Teatro Comunale, 19 dicembre 1972
Direttore: Riccardo Muti
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Coro di voci bianche Guido Monaco di Prato
Maestro del Coro: Adolfo Fanfani
Maestro del Coro di voci bianche: Ermens Bevilacqua
Attila, Nicolai Ghiaurov
Ezio, Norman Mittelmann
Odabella, Leyla Gencer
Foresto, Veriano Luchetti
Uldino, Ottavio Taddei
Leone, Mario Rinaudo
Durata totale: 1 ora e 43 minuti
℗ © 2019 Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Rassegna stampa
L’opera di Verdi eseguita al Teatro Comunale
Attila a Firenze apre la stagione
– di Duilio Courir | 21 dicembre 1972
Attila con grande successo
– di Leonardo Pinzauti | 21 dicembre 1972
La stagione lirica al Comunale di Firenze è cominciata con una manifestazione degna di figurare in un grande teatro, secondo le migliori tradizioni fiorentine: ci sarà chi potrà avanzare riserve sulla scelta di Attila, una delle cosiddette “opere brutte” di Verdi; e si potrà discutere sulla maggiore o minore perfezione dei singoli interpreti; ma non si potrà dire, mi sembra, se non rischiando la malafede, che questo spettacolo non abbia avute tutte le cure possibili, sul piano musicale come in quello scenico. E la riprova si è avuta nelle accoglienze del pubblico, calorosissimo per i principali interpreti, e tali sempre da dare la sensazione che a Firenze (mi si consenta un po’ di campanilismo) il teatro lirico non costituisce, come in altri centri resi celebri dall’intraprendenza dei loggionisti o dalle esigenze più o meno sportive dei palchettisti, un motivo di differenziazione sociale e culturale rispetto all’attività concertistica.
TRADIZIONE
Il che indubbiamente giustifica anche la scelta di un’opera come ATTILA, non casualmente riesumata dieci anni fa proprio a Firenze, sul filo di una tradizione intellettuale tanto radicata da non temere, allora, nemmeno l’assenza di n direttore artistico ufficialmente designato. E che quest’opera minore di Verdi abbia poi toccato i teatri di Londra, Roma, Trieste, Napoli, e abbia avuto anche due edizioni radiofoniche, è almeno il segno di un interesse non snobistico, e rientra nel quadro di quella revisione critica del repertorio ottocentesco che, pur con molti eccessi di fiducia, ha tuttavia rimesso in circolazione opere di cui nessuno si sognerebbe, ormai, di discutere la validità.
Certo, nel quadro della crisi degli enti lirici, di cui tanto si parla, potrebbe anche apparire un segno di buonsenso la rinuncia temporanea a qualche squisitezza di tipo, come si dice, museale.
Personalmente sono del parere che quanto più si farà strada l’idea di un teatro come servizio pubblico, tanto più si dovrà seguire la norma di far conoscere con assiduità e coerenza i punti fermi della grande letteratura operistica, da Monteverdi a Gluck, da Mozart a Wagner, da Verdi a Berg; non foss’altro per evitare che il pubblico più giovane, come accade da tempo a Firenze, conosca tante squisitezze minori, del passato e del presente, e non abbia poi un panorama organico del mondo dell’opera, dei suoi capolavori indiscussi e dei suoi punti di riferimento insopprimibili. Soltanto di questo quadro generale si potrà allora sottilizzare sulla “bruttezza” di ATTILA.
Che poi non è davvero un’opera così “avariata” come si vorrebbe. Anzi, quando è ben eseguita (com’è stato il caso fiorentino) riporta ad una vigoria inventiva e a un “sangue”, che invano cercheremmo (anche se stavolta è bastata una sola pagina a far la loro fortuna) in opere meno discusse, e anzi amate, dal pubblico e dai critici. E basterebbe tutto il secondo atto di ATTILA, dalla raffinatezza melodica e timbrica di “Oh, nel fuggente nuvolo” all’incubo di Attila e al suo incontro con leone, a dirci che nemmeno qui Verdi può essere guardato come una vittima di quel “cabalettismo” in cui pure credeva, senza falsi pudori; ma come un musicista capace di suscitare, dall’attento ascolto delle ansie dei singoli, la coralità di un grande affresco, e ritrovarvi un drammatico, misterioso e suggestivo senso dei popoli.
Nell’affresco, si sa, concorrono esigenze diverse: il segno vigoroso, talvolta, può fermarsi al dato puramente fastoso ed oleografico; l’impianto di “campi lunghi” talvolta sopraffare, con una certa sommarietà, l’individuazione dei personaggi; e ci sono le superfici, come accade nell’ATTILA, che denunciano la “bottega” donizettiana e rossiniana. Ma resta l’efficacia “religiosa”, direi, dell’insieme; ed è per questo che si giustifica, nella esecuzione di quest’opera, sia l’amorosa ricerca di particolari che la vibrante sottolineatura delle sue architetture essenziali. Proprio come ha fatto Riccardo Muti in questa edizione, certamente ancor più efficace (e sembra perfino impossibile) e “teatrale” di quella che già colpì i critici romani due anni fa, quando la diresse per la RAI in forma di oratorio.
I MODELLI
Rientra del resto dei doveri della cronaca sottolineare l’entusiasmo con cui il pubblico ha salutato Muti, e con un’insistenza che ha superato perfino (anche se non è stato ancora inventato l’applausometro) le ovazioni che di solito si rivolgono ai grandi divi. In effetti la sua concertazione, il suo modo di stabilire un rapporto espressivo fra orchestra e palcoscenico, anche nelle pagine più scopertamente strofiche e schematiche, è stata tale da ricordare i grandi modelli delle interpretazioni verdiane. E tutti i cantanti si inserivano, col massimo di partecipazione, in questo tessuto musicale, reso di volta in volta affascinante e vario, con una naturalezza da direttore di razza.
Perfettamente collocato nella sua parte è apparso NIcolai Ghiurov, una voce stupenda e articolata con intelligenza drammatica, capace di trasmettere un senso di assoluta sicurezza (se non sempre profonde emozioni poetiche) in chi l’ascolta. Ghiaurov è stato applaudito a scena aperta con grande calore; ma anche il tenore Valeriano Luchetti ha suscitato l’ammirazione del pubblico, cantando la parte di Foresto (che pur è un po’ troppo “forte” per lui) con una musicalità e una intelligenza quasi sorprendenti: segno di una sempre crescente maturazione di questo artista, in possesso fra l’altro di una perfetta dizione. Generoso e sensibile il baritono Norman Mittelmann nella parte di Ezio, anch’egli applaudito a scena aperta.
Leyla Gencer era Odabella: ha avuto i suoi applausi a scena aperta, e li meritava non tanto per fluenza e il fascino della sua voce, che una tecnica scaltrissima cerca di controllare nel registro acuto, dissimulandone l’usura, ma per l’intelligenza musicale con cui ha dato un’impronta personale, di attraente espressività alla sua parte. Da sottolineare, poi, l’interpretazione di Mario Rinaudo, che ha cantato con bella voce e emozione la parte di Leone. Efficace Ottavio Taddei (Uldino).
L’ORCHESTRA
Sul piano spettacolare ATTILA ha avuto il suo punto di forza nelle scene di Pier Luigi Pizzi, quasi sempre molto suggestive e intonate ad un recupero di valori pittorici ottocenteschi; il regista Sandro Sequi le ha utilizzate sempre con rispetto della musica, pur non evitando (e non dico che fosse impresa facile) qualche cedimento oleografico nei quadri d’insieme. Bellissimi alcuni costumi. L’Orchestra del Maggio ha suonato come nelle sue migliori giornate, con grande cura e partecipazione; e ben preparato da Adolfo Fanfani il coro, al quale si sono aggiunti per l’occasione i ragazzi della “Guido Monaco” di Prato, istruiti da E. Bevilacqua. L’allestimento scenico, come sempre molto accurato, era di Raoul Farolfi.
Allo spettacolo ha assistito, in un palco, Ebe Stignani che, riconosciuta nell’intervallo fra la prima e la seconda parte dell’opera, è stata salutata con affettuosi applausi dal pubblico della platea e delle gallerie.
INCANTA LA MUSICA DEL “FLAGELLO DI DIO”
– di Lorenzo Arruga | 21 dicembre 1972
Bene: anche Attila è stato consegnato da Verdi alla storia del teatro e della musica. Naturalmente, non è una notizia fresca: Verdi lo sapeva già dal 1844, quando lo scrisse; altri, da tempo; ma insomma dopo la serata fiorentina di ieri, ad apertura di stagione, non si può proprio dubitare più.
Firenze è città strana, vigile, pugnace, anche nel teatro d’opera.
Con Muti direttore stabile, in tre anni ha quasi quadruplicato gli abbonamenti; alle recite non si trova un posto. Eppure il direttore artistico Roman Vlad se n’è appena scappato. Il fatto è che nel consiglio d’amministrazione, in nome d’un curioso marxismo, un geometra può ottenere che non si metta in scena il “Flauto magico” di Mozart, perché è, dice, storicamente opera massonica e religiosa.
Eppure il teatro continua a sfornare spettacoli eccellenti. Quello di ieri sera, strepitoso; come potrete vedere anche, se non intervengono inciampi e cambiamenti, quando verrà alla Scala nella primavera 1974.
“Attila” s’è imposto come emozionante indagine storica. Non il flagello di Dio contro i buoni romani: ma la lotta tra un capo energico e primitivo contro un potere attento e già abbastanza corrotto. Odabella, la donna a cui egli stesso ha donato la spada, lo uccide per vendetta patriottica; Foresto, eroe popolare, lo contrasta tutto pieno di rancori personali (ieri, l’intima passionalità era calata nella limpida linea di canto del tenore Veriano Luchetti); Ezio, il generale romano (ieri il sobrio eccellente Normann Mittelmann) si mostra pronta a dividere con lui le conquiste, accordandosi; persino il papa Leone (adeguatissimo, ieri, Mario Rinaudo) viene mandato avanti per impressionarlo colla sua sacralità.
Sono tradizioni di varie fonti, mescolate con acutezza, e capaci di diventare sussulti melodrammatici. E ad ogni fatto drammatico, corrisponde un’ardita risonanza interiore. Odabella è complessa, tormentata, incerta; Attila stesso coglie i fatti come emozioni ed arcane vegenze… E cos Leyla Gencer di Odabella scopre l’eccesso accorato dalla vita, rivelandolo prima della strenua impetuosità degli ardimenti vocali, poi nella lacerante, inimitabile poesia delle mezze voci. E così Ghiaurov protagonista sensazionale, scava a forza nelle note della partitura, un personaggio ricco di pensieri, di stupori, di violenze fatte e subite, che preannuncia Simone Boccanegra: e lo impone con la potenza inusitato della voce tutta d’intatta bellezza, con la perfezione stilistica del canto verdiano, immedesimato fisicamente, voce e gesti in Attila, misto indimenticabile di dignità e di collera, di barbarie e di regalità.
Ma Ghiaurov è stato anche aiutato dalla messinscena: la scenografia di Pier Luigi Pizzi è ricca di stupende invenzioni figurative tradizionali, ma è sorprendente per come risolve in segni il procedere interiore del dramma. Quando la visione del sonno di Attila si muta nella visione reale del Papa che lo ammonisce, la soluzione, per esempio, è questa: fuori dal drappeggio alla Pier della Francesca che ci crea l’atmosfera di visione del guerriero, appare il Papa, bianco, con il coro di fanciulle, bianche in mezzo al grano.
“Attila” infine s’è imposto come fatto musicale. E’ passato il tempo in cui si parlavi di Verdi di come d’un orchestratore insipido nei primi anni, soltanto perché si continuava a rapportare il gusto alla fasce sonore preordinate e nobili del tardo romanticismo.
Riccardo Muti dirigendo, ha mostrato più che mai la varietà geniale, cruda, intensa, toccante, di una strumentazione che ha in sé ancora la forza primigenia di combinare i suoni imprevedibilmente. Muti dispone di un’orchestra fedele, che suona con dedizione e con intelligenza, d’un coro pronto ad ogni impresa; e poiché la concentrazione drammatica, evitando spazi e intervalli superflui, ha serrato l’opera in una incalzante e fatale animazione, esaltandola, e trascinando il pubblico, che ha acclamato Verdi e i suoi interpreti.
E adesso, dopo il passaggio di Attila, speriamo che a Firenze nessuno decida che storicamente non deve più crescere l’erba.
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