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CD
Maggio Live, Riccardo Muti Edition
in occasione del 50° anniversario del debutto di Riccardo Muti al Teatro del Maggio
Durata totale: 1 ora e 15 minuti
Made in Italy
Anteprima Audio (estratto):
Firenze, Teatro Comunale, 2 gennaio 1971
Direttore: Riccardo Muti
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro: Adolfo Fanfani
Nedda, Mietta Sighele
Canio, Richard Tucker
Tonio, Kari Nurmela
Peppe, Ermanno Lorenzi
Silvio, Walter Alberti
Primo contadino, Ottavio Taddei
Secondo Contadino, Mario Frosini
Durata totale: 1 ora e 15 minuti
℗ © 2018 Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
È assai probabile che delle quattro edizioni dei Pagliacci firmate da Riccardo Muti, (studio o teatro che sia), questa debba essere considerata la migliore. Certo comunque preferibile a quella della EMI (1979), segnata da un cast improbabile, ad eccezione del solo Kari Nurmela, peraltro qui a Firenze assai preferibile. Insieme a Cavalleria (Souliotis, Cecchele, Guelfi), questi Pagliacci aprivano l’anno 1971, segnando uno dei momenti magici dell’« era Muti » a Firenze. E ben a ragione. A differenza di Karajan, il direttore italiano non cerca di nobilitare, di europeizzare una partitura appartenente a un’Italia popolare e contadina, se ve ne furono. Anzi, s’immette senza remore nella debordante violenza dell’opera, ne fa sua tanto la carnalità esasperata quanto il bozzettismo paesano: e soprattutto l’inarrestabile corsa degli eventi verso la loro catastrofe. Sembra sin dall’inizio pesare su questi Pagliacci una sorta d’hybris tragica, il senso arcaico d’un rito di sangue fatale, necessario. E che, a volerlo individuare, prende le mosse proprio dall’orchestra che s’impenna bruscamente ad avvolgere in modo inquietante « Un tal gioco, credete ». E da qui, in un crescendo di tensione attanagliante. Così concepiti, avvampanti, ruvidi, neorealisti come La terra trema o Rocco e i suoi fratelli di Visconti, i Pagliacci di Muti non di meno esibiscono un suono magnifico e potente, immagini foniche di volta in volta straordinarie o inattese o nel finale, deliranti: eppur non mai imbellettate, non educate, non preziose come quelle di Karajan. Sostegno e coerenza alla lettura di Muti viene certo dai cantanti, ideali in tal contesto. A cominciare da Richard Tucker, il cui smalto virile e lucente è quasi intatto e il cui coinvolgimento nelle furie di Canio a tratti mette effettivamente paura: qualche eccesso nel finale è compensato da un « Ridi pagliaccio » consentito solo ai grandi. E da certi scatti nevrotici coerenti con le (allora) vigenti teorie dell’antropologia delinquenziale di Cesare Lombroso. Accanto a lui si potrebbe pensare che la dolce Mietta Sighele ne esca schiacciata: ma non è così. In grazia di un imposto di eccezionale vaglia tecnica, con acuti saldi e penetranti, la Sighele mette in campo una di quelle donne meridionali piccole, magre, ardenti, divoranti, come la Lupa di Verga, ragione sempre di coltelli e di sangue. Kari Nurmela era un baritono che abbiamo sempre stimato (Scarpia ragguardevole, Boris Timofeyevich eccezionale in Katerina Izmailova) e che qui tratteggia un Tonio più interessante che in studio, laido e loico al tempo stesso, nonché voce di grande correttezza, se non di timbro indimenticabile. Bravissimo anche Walter Alberti come Silvio. Il restauro sonoro accusa qualche sporadica durezza.
Maurizio Modugno, Musica
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