3 DVD: Paisiello – Mozart – Jommelli (sub: EN)
52,50€ esclusa spedizione
Disponibile
- Se acquisti il box dvd, avrai in omaggio la versione streaming dei 3 video ai link di seguito.
DVD 1
Giovanni Paisiello, Missa defunctorum (anche in streaming video)
DVD 2
Wolfgang Amadeus Mozart, Betulia liberata (anche in streaming video)
DVD 3
Niccolò Jommelli, Betulia liberata (anche in streaming video)
Con introduzioni all’ascolto di Riccardo Muti
Durata totale: 6 ore e 30 minuti
Booklet: 52 pagine / Italiano. Contiene: libretti delle opere
Formato: PAL/NTSC
Lingua: Italiano
Sottotitoli: Inglese
Made in Italy
Raffinato e profondo omaggio a una Napoli meno conosciuta di quella oggi di moda, il trittico racconta i fasti della capitale della musica, rivale di Vienna, omaggiata da Pietroburgo, che anche in Mozart lasciò segni indelebili, fino alle ultime opere. Al centro dei tre DVD, registrati dal vivo, tra Ravenna e Salisburgo, c’è il cammeo della fresca “Betulia”, del genio quindicenne, mentre a quinta la guardano i due monumenti di Paisiello e Jommelli: del gioco di invenzione e affetti, Muti consegna tutta la più sottile poesia.
Carla Moreni, Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2018
Contenuti:
DVD 1 – 1h 48′
Giovanni Paisiello, Missa defunctorum
Requiem per soli, coro e orchestra
Contiene l’introduzione all’ascolto di Riccardo Muti
Riccardo Muti
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
La Stagione Armonica
Maestro del Coro Sergio Balestracci
Beatriz Diaz soprano
Anna Malavasi mezzosoprano
Juan Francisco Gatell tenore
Nahuel Di Pierro basso
Arianna Venditelli, Lucia Napoli soprani
Alessandra Visentin contralto
Baltazar Zúñiga tenore
Dragoljub Bajic′, Raffaele Pisani, Fabrizio Da Ros bassi
Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare in Classe
DVD 2 – 2h 32′
Wolfgang Amadeus Mozart, Betulia liberata
Opera – Azione sacra in due parti KV 118
Contiene l’introduzione all’ascolto di Riccardo Muti
Riccardo Muti
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Philharmonia Chor Wien
Maestro del Coro Walter Zeh
Clavicembalo Speranza Scappucci
Ozìa Michael Spyres
Giuditta Alisa Kolosova
Amital Marta Vandoni Iorio
Achior Nahuel di Pierro
Cabri Barbara Bargnesi
Carmi Arianna Vendittelli
Marco Gandini regia
Italo Grassi scene
Gabriella Pescucci costumi
Marco Filibeck luci
Ravenna, Teatro Alighieri
DVD 3 – 2h 6′
Niccolò Jommelli, Betulia liberata
Oratorio per quattro voci, coro e strumenti
Contiene l’introduzione all’ascolto di Riccardo Muti
Riccardo Muti
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Philharmonia Chor Wien
Maestro del coro Walter Zeh
Giuditta Laura Polverelli
Ozìa Antonio Giovannini
Carmi Dmitry Korchak
Achior Vito Priante
Vittorio Ghilemi viola da gamba
Marta Gramolino arpa
Simone Gulli, Matteo Riboldi organo e clavicembalo
Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare in Classe
Rassegna stampa
Recensione pubblicata sulla rivista Musica:
Con tre preziosi video, Riccardo Muti riscopre pagine fondamentali del repertorio settecentesco. Mozart, Jommelli e Paisiello: Muti racconta la scuola napoletana.
– di Nicola Cattò | Febbraio 2018
Fra i tanti filoni in cui, in oltre mezzo secolo di attività, l’arte di Riccardo Muti si è dispiegata, quello relativo alla scuola napoletana è particolarmente caro al Maestro, che nel capoluogo campano è nato e nel Conservatorio di San Pietro a Majella ha studiato; in più, la prima opera in assoluto che ha diretto è stata – nel 1967, al Teatro dell’Arte di Milano, L’osteria di Marechiaro di Paisiello, con un’orchestra formata da studenti e professori di quel Conservatorio di Milano, dove si era appena diplomato (e nel cast, tra l’altro, figurava, nei panni di Lesbina, colei che sarebbe diventata sua moglie, Cristina Mazzavillani). Non stupisce, quindi, che nei cinque anni (2007-2011) di direzione artistica del salisburghese Festival di Pentecoste, il focus musicale sia stato proprio la riscoperta di titoli poco o punto noti della scuola napoletana, partendo da Il ritorno di Don Calandrino di Cimarosa per finire con I due Figaro di Mercadante, passando per Paisiello e Jommelli, esplorando sia la produzione sacra che quella teatrale. Coprodotti con Ravenna Festival, alcuni di quegli spettacoli hanno avuto una riproposizione in Romagna, e da essi, grazie alla Riccardo Muti Music, sono ora stati tratti tre DVD, raccolti in cofanetto, dedicati alle due versioni della metastasiana Betulia liberata, quella di Jommelli (realizzata in forma di concerto) e quella di Mozart (allestita con scene e costumi), nonché alla sorprendente Missa defunctorum di Paisiello. Ecco quindi che l’incontro con il Maestro, svoltosi all’inizio di gennaio dopo il successo del Concerto di Capodanno viennese (« ho scoperto molte cose sulle varie tradizioni di suonare la Zither», mi confida), verte essenzialmente su questo argomento; pur non trascurando di parlare di un’altra importante iniziativa editoriale, Maggio Live, cui abbiamo già dedicato ampie anticipazioni nel numero scorso, e che debutta ora con la prima pubblicazione, I Puritani di Bellini, tratta dalle mitiche recite fiorentine del dicembre 1970.
Ma cosa si intende per scuola napoletana? Che ambiti temporali possiamo stabilire?
Generalmente con questa espressione ci si riferisce al Settecento e ai quattro grandi collegi musicali operanti in città e risalenti al ‘500 (Santa Maria di Loreto, la Pietà dei Turchini, i Poveri di Gesù Cristo e Sant’Onofrio a Capuana), che nel 1808 confluiscono nel Conservatorio di San Pietro a Majella; al loro interno operavano insegnanti come Durante e Porpora, in un fiorire di musicisti che è passato per Cimarosa, Paisiello, Traetta, Pergolesi, Piccinni e tanti altri fino a Mercadante. Questo grande gruppo di operisti e autori di musica strumentale (non dimentichiamo che strumenti come l’oboe e il fagotto hanno ricevuto un forte sviluppo tecnico grazie a musicisti di quell’epoca) rappresenta ciò che si intende come «scuola napoletana». Quindi il ‘700: ma prima c’era stato il «padre» della musica europea (quanto Bach, se non di più), ossia Alessandro Scarlatti, che ha allargato la propria influenza su tutta l’Europa. Questa scuola era così prestigiosa anche all’estero che Mozart, quando fece il suo primo viaggio in Italia, ebbe come obiettivo essere riconosciuto a Napoli come un grande talento. E a Napoli conobbe Jommelli, per la cui Didone scrisse alcune arie.
E possiamo spingerci fino a Rossini, Donizetti e Bellini nel primo ‘800…
Sicuramente: il San Carlo, definito da Stendhal il più bel teatro del mondo, aveva un’orchestra considerata tra le più virtuose d’Europa. Rossini ne fu direttore artistico dal 1815 al 1822, e Donizetti nei 16 anni successivi: un grande patrimonio che, da solo, costituisce una cassaforte che il teatro dovrebbe valorizzare per sottolinearne la sua gloriosa storia. I rapporti tra Napoli e Vienna erano strettissimi, non solo per la presenza di Maria Carolina, moglie del re di Napoli e figlia di Maria Teresa, che diede grande impulso alle arti a Napoli: Porpora, attivo a Vienna, veniva considerato da Haydn il suo insegnante più importante e il suo Salve Regina (da me diretto persino nella Cappella Sistina con Angelika Kirchschlager) prefigura la « melodia infinita» belliniana. Nell’800 a Napoli opera una figura-chiave come Thalberg, la cui scuola produrrà Sigismondo Cesi e Giuseppe Martucci, che per primo diresse in città (grazie ad un mecenate che rese possibile la formazione dell’orchestra) le Sinfonie di Brahms e Beethoven.
Sul versante sacro, la musica settecentesca italiana aveva come due poli principali gli stilemi di derivazione operistica oppure le formule contrappuntistiche più severe di stampo palestriniano, tanto che perfino Papa Benedetto XIV intervenne in merito; nella Missa defunctorum di Paisiello, però, vediamo una certa difformità dallo stile canonico, con responsori in forma di mottetto, uno scarso uso del contrappunto. Qual è, secondo lei, la posizione stilistica del repertorio sacro napoletano?
Si tratta di una partitura – quella di Paisiello molto originale anche a livello strumentale, con doppio coro e doppia orchestra, e che non possiede quel colore cupo e tragico che appartiene alle Messe d’oltralpe, proprio come accade nella pittura: i quadri napoletani del ‘700 hanno, anche nel dolore, una specie di lieve sorriso, quasi una tenerezza estranea, invece, all’arte tedesca. C’è un approccio mediterraneo verso la morte: essa viene quasi personificata, attiva, dialogante, per cui le parole assumono un senso drammatico, tragico e non hanno bisogno di un supporto contrappuntistico, ma di una liricità che non va intesa come operaticità (anche Rossini e Verdi furono fraintesi per questo) ma come abbandono al canto puro, che ne esalti il senso profondo, partendo dagli elementi più semplici: cum parvis componere magna.
Quali scelte filologiche ed organologiche ha compiuto per questo repertorio, all’atto esecutivo?
Per farle capire come intendo il Barocco, praticamente, la invito a riascoltare la mia incisione della Musica sull’acqua di Händel, che realizzai oltre trent’anni fa con i Berliner Philharmoniker: se c’è un’orchestra che può sembrare all’opposto del mondo barocco è proprio quella, eppure credo si tratti di un buon risultato. Avevo studiato libri di prassi esecutiva dell’epoca, e avevo applicato a strumenti di oggi un modo di suonare adatto a quel repertorio, cercando di ricreare un mondo sonoro che comunque non esiste più e di cui non abbiamo evidenze concrete. Possiamo informarci tramite documenti, l’iconografia: ma non si può resuscitare un cadavere. Non è vero che applicando determinate regole – dal non vibrato alle corde di budello, dall’archetto diverso agli accenti esasperati – si ricrei un mondo finito e scomparso. La conseguenza negativa è che le grandi orchestre sinfoniche oggi tendono a tenersi lontano da questo repertorio. Non è neppure una questione di numero di musicisti. A una delle prime esecuzioni della Creazione di Haydn diretta da Salieri gli esecutori furono 1000, come si rileva dai documenti di pagamento conservati all’archivio del Musikverein. Sta tutto nel modo, non nella quantità o nel tipo di strumenti.
Quindi dirigerebbe le Passioni di Bach?
Certo; d’altronde ho già eseguito, tra l’altro, la Messa in si minore. Questa musica oggi è divenuta « proprietà» dei cosiddetti specialisti. Un processo nato come giusta reazione alle esagerazioni tardo-romantiche in stile Stokowski: non si può eseguire la Jupiter di Mozart con le sonorità della Quarta sinfonia di Bruckner. La consapevolezza stilistica è la base di una buona esecuzione: per esempio, in Jommelli ho scelto il falsettista Antonio Giovannini per ricreare una vocalità di contraltista oggi perduta, quella dei castrati, che erano anche musicisti completi e persino compositori. Farinelli e Caffarelli erano talmente importanti da avere addirittura poteri politici: quando quest’ultimo si ritirò e tornò a Napoli, costruì una casa principesca (oggi distrutta) nel quartiere della Pignasecca. Come racconta Benedetto Croce, per sottolineare la sua dignità principesca Caffarelli fece scrivere su un muro « Amphion Thebas, ego domum », ossia Anfione costruì (cantando) Tebe, io (con la mia voce) questa casa. Un ego non da poco! E anni dopo una mano anonima – ma geniale – aggiunse « ille cum, tu sine »: ossia « lui con… gli attributi, tu senza ». Questo per dire l’inventiva dei napoletani!
Veniamo ora alle due Betulie. L’atteggiamento di Leopold Mozart verso Jommelli sembra ambivalente, fortemente critico in Germania e più condiscendente quando si incontrano a Napoli: e anche Wolfgang non è tenero verso la musica dell’italiano, che definisce bella ma antiquata, prevedibile. Qual è secondo lei la differenza principale fra le due partiture? Cosa prende Mozart dalla scuola napoletana?
Mozart assorbe gli influssi più diversi e li tramuta in qualcosa di nuovo, originale, unico: pensi che, quando chiesero a Rossini chi fosse il più grande musicista, egli rispose Beethoven. All’obiezione dell’interlocutore (« E Mozart? »), il Pesarese aggiunse « Mozart è al di sopra ». La sua Betulia è l’opera di un ragazzo, ma straordinaria, con una teatralità di derivazione oratoriale eppure perfettamente compiuta, una caratterizzazione dei personaggi davvero raffinata: non farei un paragone con l’oratorio di Jommelli, che è molto ancorato al virtuosismo dei cantanti – tutte le arie vedono un’ampia presenza della coloratura, cui vanno aggiunte le variazioni estemporanee che venivano inserite, nonché ampie introduzioni orchestrali. Jommelli non è Paisiello, non è Cimarosa: è più severo, più accademico. Mozart, invece, non è mai accademico, anche nei pezzi di maniera c’è il guizzo della genialità; in Jommelli invece c’è il mestiere, come accade anche in Mercadante, tanto che quando ho diretto I due Figaro opera strepitosa – io che non amo amputare le partiture ho ritenuto necessario, in questo caso, alleggerire molti brani, ripetitivi fino a diventare ossessivi. Ho deciso di unire Paisiello, Jommelli e Mozart sotto lo stemma della scuola napoletana per enfatizzare l’importanza che essa ha avuto sul Salisburghese, che era spesso molto severo e acido verso gli altri compositori, ma che fin da ragazzo avvertì la necessità che la capitale europea della musica riconoscesse il suo genio. E anche Da Ponte, « compagno di viaggio » di Mozart, aveva grande rispetto di Paisiello e Cimarosa. Jommelli non ha la verve di quest’ultimo, o l’invenzione melodica del primo, ma ha un senso sinfonico – le già ricordate introduzioni alle arie – e un trattamento dell’orchestra che vanno ben oltre il suo tempo.
Chissà che Mozart non se ne sia ricordato più tardi, ad esempio nell’introduzione dell’aria di Konstanze…
Credo di sì, potrebbe essere un omaggio: anche gli oratori di Scarlatti vedono l’orchestra in primissimo piano, con uno spessore forte, che muterà in compositori come meno con Bellini e Donizetti. A questo punto le strade del sinfonismo europeo e dell’opera italiana divergeranno del tutto.
Forse saprà che negli ultimi mesi si è diffusa una tesi delirante che, riprendendo vecchie discussioni legate alla figura di Andrea Luchesi, negherebbe a Mozart la paternità di molte sue opere: la Betulla, in particolare, sarebbe di tal Calegari oppure di Mysliveček!
Non sono a conoscenza di queste tesi, ma non v’è dubbio che nella Betulia liberata si riconosca il genio precoce di Mozart.
Con Bellini, prima citato, si inaugura un’altra importante iniziativa discografica a lei legata, con l’etichetta Maggio Live: si tratta de I Puritani con Gedda e la Deutekom (1970), cui seguiranno entro l’anno due Concerti di Mozart suonati dal sommo Sviatoslav Richter (risalenti al 1971 e 1976) e i Pagliacci con Richard Tucker (1971). Perché ha scelto, della sua lunga esperienza fiorentina, proprio questi titoli?
Molto semplice da spiegare: Richter fu il grande solista che accettò di collaborare con un giovane direttore debuttante a Firenze, esattamente 50 anni fa. Il concerto ebbe un tale successo che i musicisti del’orchestra mi chiesero di diventare il loro direttore stabile. Come ho raccontato altre volte, Richter mi invitò a Siena nell’inverno del 1967 per conoscermi e mettermi alla prova, chiedendomi di suonare al pianoforte la parte dell’orchestra del Concerto di Mozart e di quello di Britten; alla fine esclamò « se dirige come suona, accetto di lavorare con lui ». E fu l’inizio di una lunga amicizia.
I Puritani erano l’opera che avevo diretto pochi mesi prima a Roma con la Freni e Pavarotti, Giaiotti e Bruscantini: ero all’inizio della carriera e, quindi, non avevo un gran repertorio, specie ottocentesco. Dopo aver eseguito I Masnadieri di Verdi, decisi di dirigere al Maggio un titolo che conoscevo bene. Fondamentale fu la presenza di Nicolai Gedda, che fraseggiava « A te, o cara » come se fosse un Lied di Schubert, con un senso dello stile perfetto, raggiungendo il Do diesis acuto da vero musicista, senza effettacci di dubbio gusto; e anche la Deutekom, pur così discussa, era molto espressiva, e la sua voce, nel concertato del primo atto, riempiva senza sforzi il teatro. A loro si aggiungeva poi la grande arte di Sesto Bruscantini. I Pagliacci sono « dedicati » a Tucker: io ero giovanissimo e lui era stato uno dei tenori prediletti da Toscanini. Non dimentico però la sua serietà, la sua puntualità alle prove, la sua assenza di divismi, il suo rispetto per la musica. Come Gedda fu un signore del fraseggio e della tecnica di canto. Un giorno, rispondendo al mio stupore per la sua tecnica vocale così fresca e impeccabile nonostante gli anni, mi disse con disarmante semplicità: « Maestro, nella mia vita di cantante non ho mai aperto un suono per compiacere un certo pubblico ».
Nicola Cattò, Musica, febbraio 2018
Mozart, Jommelli, Paisiello. I grandi del settecento secondo Riccardo Muti
– di Giovanni Gavazzeni | 9 febbraio 2018
Mozart è una dimostrazione dell’esistenza di Dio: è venuto dal cielo in terra a miracol mostrare. I versi che Dante rivolge a Beatrice nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare riassumono alla perfezione l’unicità mozartiana. Parole che ci disse Riccardo Muti quando presentò a Ravenna l’azione sacra, Betulia liberata di Mozart (1771), e l’opera che Niccolò Jommelli aveva scritto nel 1743 su medesimo testo del poeta cesareo, Pietro Metastasio, soggetto tratto dal biblico Libro di Giuditta. Muti sottolineò le analogie fra il genio adolescente e il maturo maestro della scuola napoletana («il senso nuovo, eppur antico, dell’armonia»). Rivendicò la statura di Jommelli («la dimensione delle arie e l’uso del coro – parco e molto suggestivo – sono illuminanti di un ingegno musicale che ebbe un influsso determinante nella musica del suo tempo»). Mozart ben conosceva Jommelli e l’opera italiana coeva che merita di essere conosciuta proprio in relazione all’astro maggiore. «All’inizio del secondo atto della Betulia di Mozart», ricorda il maestro Muti «c’è un recitativo secco in cui i due personaggi dissertano sull’essenza di Dio. Sembra uscito da San Tommaso o Sant’Agostino. Stupefacente che un ragazzo di quindici anni della piccola Salisburgo possedesse tanta dottrina teologica». Un trittico di dvd (disponibili sul sito www.riccardomutimusic.com), unisce ai nomi di Jommelli e Mozart quello a suo tempo non meno celebre di Giovanni Paisiello. Il tarantino è presente con la sua monumentale Missa Defunctorum, nata come suffragio dei Borboni morti di vaiolo, poi ampliata come requiem in memoria di Pio VI che il Direttorio francese arrestò e seppellì in esilio come “cittadino Giannangelo Braschi – in arte Papa”. Lavoro singolare, preceduto da una sinfonia che Paisiello, musicista prediletto da Napoleone, aveva scritto in morte del generale Lazare Hoche, “pacificatore” della Vandea. Tal dei tempi il costume. Qualcuno dà a Paisiello dell’opportunista. Che dire? Se i rovesci della storia non bastano come attenuanti, pensiamo allo spettacolo contemporaneo: assalto alle liste, cambi di casacca, alleanze pronte alla dissoluzione. Non quella di Don Giovanni, ma di Scapino.
Giovanni Gavazzeni, Il venerdì di Repubblica, 9 febbraio 2018
Raffinato e profondo omaggio a una Napoli meno conosciuta di quella oggi di moda, il trittico racconta i fasti della capitale della musica, rivale di Vienna, omaggiata da Pietroburgo, che anche in Mozart lasciò segni indelebili, fino alle ultime opere. Al centro dei tre DVD, registrati dal vivo, tra Ravenna e Salisburgo, c’è il cammeo della fresca “Betulia”, del genio quindicenne, mentre a quinta la guardano i due monumenti di Paisiello e Jommelli: del gioco di invenzione e affetti, Muti consegna tutta la più sottile poesia.
Carla Moreni, Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2018
Intervista a Riccardo Muti
– di Donatella Longobardi | 2 dicembre 2017
“Il San Carlo, la Biblioteca Nazionale, i Girolamini, il San Pietro a Majella, il Museo Archeologico, Capodimonte… Quanto si potrebbe fare coniugando tutte queste forze artistiche…”. Ragiona così ad alta voce Riccardo Muti nella sua casa di Ravenna. Qualche giorno di riposo di ritorno da Chicago e prima di partire per Vienna dove prepara il suo quinto Concerto di Capodanno. L’11 dicembre sarà a Capodimonte dove presenterà la sua opera d’arte preferita nell’ambito di «Carta Bianca», iniziativa nata da un’idea del direttore Sylvain Bellenger e di Andrea Villani direttore del Madre, con la quale alcuni «curatori eccellenti» proporranno il loro museo ideale. «Non ho potuto dire di no, da anni giro il mondo con Napoli e la sua cultura nel cuore», nota il maestro atteso al San Carlo a novembre 2018 per il «Così fan tutte» con la regia della figlia Chiara. Un Mozart «napoletano» ambientato all’ombra del Vesuvio che rinsalda il progetto dedicato, tra Salisburgo e Ravenna, alla riscoperta dei capolavori della grande Scuola Napoletana del Settecento con l’Orchestra Giovanile Cherubini. Ne è testimonianza il cofanetto con tre dvd pubblicato in questi giorni dalla Riccardo Muti Music: la Missa Defunctorum di Paisiello, registrata live nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe, quindi l’opera di Mozart e l’Oratorio di Jommelli dallo stesso titolo e sullo stesso testo del Metastasio, «Betulia liberata».
Allora maestro Muti, Napoli e la sua cultura sono sempre al centro dei suoi interessi?
«E come non potrebbe? Sono nato a Napoli per desiderio di mia madre, profondamente legata alla sua città, qui sono cresciuto e mi sono formato musicalmente in Conservatorio alla scuola di Vincenzo Vitale. Le radici sono importanti, le radici vere, non il folklore».
Nel nuovo cofanetto lei mette in evidenza il rapporto della Scuola napoletana con Vienna e con Mozart.
«Per cinque anni al Festival di Pentecoste a Salisburgo ho raccontato musicalmente questo percorso per sottolineare quanto il genio di Mozart appartenga alla musica napoletana. Nel suo viaggio in Italia con il padre, l’ultima tappa, la più importante, era proprio Napoli dove il giovane Amadeus fu accolto e riconosciuto come grande talento. Qui incontrò Jommelli che stava scrivendo il suo “Demofoonte” – altra opera che ho messo in scena a Salisburgo – e scrisse tre arie per quest’opera cercando di far colpo sul compositore, all’epoca tra i maggiori».
Jommelli e Mozart sono due mondi che si incontrano?
«Direi che si reincontrano. È un fatto che Mozart e Jommelli si fossero incontrati, io li ho rimessi insieme. Non per fare paragoni, per carità, ma per far capire quanto sia diverso l’approccio. In questo senso la “Betulia liberata” è un omaggio del giovane Mozart all’illustre collega partenopeo che si era cimentato sullo stesso testo. Certo, non tutto il Settecento partenopeo è fatto di capolavori, ma ci sono centinaia di opere che attendono di essere riprese. Non è un caso che il giovane Mozart cerchi nella capitale musicale del Mediterraneo la linfa di nuove idee che lo porteranno successivamente anche a scrivere il trittico di opere italiane con Da Ponte».
Tra queste il «Così fan tutte» che lei ha scelto di eseguire al San Carlo e poi alla Staatsoper di Vienna in coproduzione tra Napoli e la capitale austriaca.
«A Mozart ho dedicato gran parte della mia vita, è un autore che richiede una disciplina artistica molto sottile, spero di fare un buon lavoro. A Napoli ho diretto una sola opera, il “Macbeth” con le scene di Manzù inaugurando la stagione ’84-’85». Ora si prepara a tornare con la regia di Chiara. «Insieme abbiamo fatto la “Manon” a Roma e la “Sancta Susanna” di Hindemith a Ravenna, sono sicuro del suo lavoro. E poi questa è un’opera che lei ama molto, è un po’ nel suo Dna, come lo è Napoli, visto che è mia figlia».
Lei gira il mondo con le sue orchestre, ma è come se non si fosse mai allontanato.
«Credo che nessun’altra città al mondo abbia un centro artistico paragonabile a Napoli. Sono convinto che anche oggi le risorse ci siano, serve la volontà di metterle insieme».
Come fare?
«Vedo che maturano molte cose. Intanto c’è questo progetto a Capodimonte dove Bellenger sta facendo un ottimo lavoro».
Lei ha scelto un’opera da segnalare?
«Il Crocifisso del Masaccio. Ho anche registrato un video per una app che ognuno potrà rivedere sul telefonino nel quale spiego le ragioni di questa scelta. Il dipinto faceva parte di una pala d’altare per Santa Maria del Carmine di Pisa, dopo molte diatribe è stata attribuita a Masaccio. È una delle opere più preziose conservate nel museo, ma è anche una delle più significative».
Il suo legame con Capodimonte, maestro?
«Beh, ci andavo da ragazzo, all’epoca si teneva una stagione estiva di concerti nel chiostro. Ma anche il parco è una meraviglia, un giorno potrebbe venire di nuovo usato per le feste come ai tempi dei Borbone… Credo sia un luogo dove poter ritrovare grandi valori culturali. Come in ogni cosa a Napoli bisognerebbe mettere di più l’accento sulle cose positive».
Non ama la Napoli di «Gomorra»?
«Io amo ripescare nel passato. Sto rileggendo “Napoli ’44”, il diario dell’ufficiale inglese Norman Lewis da cui Patierno ha tratto un film. Racconta un momento difficilissimo del dopoguerra, ma con uno sguardo di simpatia verso l’inventiva e l’arguzia dei napoletani. Come quando, mancando ogni cosa, per preparare un pranzo a un generale cucinarono i preziosi pesci dall’acquario. Insomma, le risorse ci sono sempre, bisogna rimetterle nel piatto».
Donatella Longobardi, Il Mattino, 2 dicembre 2017
Riccardo Muti – L’avventura della conoscenza nasce dall’immedesimazione
– di Massimo Bernardini | 3 settembre 2009
«Per dirigere con maestria Mozart, Beethoven o Giovanni Paisiello – spiega Riccardo Muti – non basta essere tecnicamente virtuosi: è necessario calarsi nella vita dell’autore, identificarsi con lui, fino ad afferrarne l’essenza, fino a sentirlo parte di sé»
“L’avventura della conoscenza comincia lì, davanti alla partitura. Per esempio quelle del Settecento napoletano che anche quest’anno, fra primavera ed estate, ho rimesso in circolo fra Salisburgo, Parigi e Ravenna. Ho la fortuna di poterle riscoprire al pianoforte, grazie ai grandi insegnanti che ho avuto al Conservatorio di Napoli e Milano. Questo mi permette un approccio più libero e diretto, senza pre-ascolti o pregiudizi. Già in questo primo incontro mi accorgo immediatamente dell’ispirazione che c’è o non c’è dentro, vengo colpito dalla fattura delle arie e dei concertati, dall’orchestrazione, dalla struttura armonica, soprattutto da come la parola viene realizzata, scolpita nella “roccia” della musica. Infatti se è musica di routine oppure no (e sicuramente molte di queste opere lo sono, perché in quegli anni su quei maestri piovevano innumerevoli richieste da tutti i teatri d’Europa), alla fine lo intuisco sempre dall’aderenza della musica alla parola. Quando c’è un’invenzione che ha queste caratteristiche, anche se non sono per forza di fronte a un capolavoro, riconosco all’opera un grande maestro, ne colgo l’estrema sapienza e insieme la vitalità. E decido che vale la pena di entrarci dentro. Comincia l’avventura della conoscenza.
Nella semplicità, il sublime. Quest’anno ho riscoperto la Missa defunctorum di Giovanni Paisiello. È la seconda versione, datata 1799 e dedicata alla memoria di Pio VI morto in esilio, di una Messa dedicata dieci anni prima a un folto gruppo familiare di casa Borbone decimato dal vaiolo. La forma diviene molto più ampia, con una Sinfonia iniziale e ben quattro Responsorii finali tra coro, solisti e orchestra che non c’erano nella prima. Comincio a studiarla, apro la prima pagina, ed eccomi davanti l’attacco improvviso e solenne dell’orchestra. È chiaramente il movimento iniziale di una banda che accompagna una processione nei paesi dell’Italia del Sud (non dimentichiamo che Paisiello è tarantino). E allora eccomi anch’io lì, la sera del Venerdì Santo, quando si spengono le luci sul porto di Molfetta e i piedi del Cristo Morto spuntano dalla porta della chiesa di Santo Stefano illuminati da due candelabri. Vedo i piedi bucati dai chiodi, la banda che attacca a suonare lentamente, quasi nell’oscurità. Sono totalmente preso dal Do minore del Preludio di questa Sinfonia (ironia della storia: viene dalle esequie di un generale napoleonico). Prima l’orchestra e poi il coro “Quale funus! Et ploratus! Tubae mestae a longe sonant”. (Quali esequie! Quale pianto! Meste trombe suonano da lontano). Il funerale è cominciato. Do minore come la marcia funebre dell’Eroica, con lo stesso passo dell’Eroica: lo stesso delle marce funebre meridionali, quello della folla dietro il carro funebre.
Bisogna trovarlo, il passo giusto. Beethoven segue il passo obbligato di chi non si vuole disfare del cadavere troppo presto, così si incontrano alto e basso, colto e popolare. Io invece in una Messa come questa riscopro me stesso, avendo due secoli dopo la stesse radici culturali di Paisiello e non essendo cambiate le cose nel popolo in termini di abitudini, tradizioni, manifestazione del dolore attraverso la musica. Tutto è rimasto pressoché intatto, come lo vivevo da bambino. La banda per le strade dall’alba a mezzogiorno e io svegliato la mattina da questo suono lugubre e lento, esattamente come succedeva al giovane Paisiello. Di questa Missa defunctorum si potrebbe benissimo suonare l’introduzione il Venerdì o il Sabato Santo in una delle processioni pugliesi e sarebbe sicuramente al suo posto. A un certo punto si alzano due donne, il soprano e mezzosoprano, e intonano dalla sequenza del Dies Irae questi versetti: “Quaerens me sedisti lassus, redemisti crucem passus”. (Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai salvato morendo in croce). Questo meraviglioso duetto, di semplicissima fattura, che poggia quasi solo sugli accordi di tonica e di dominante e dura poco più di cinque minuti, ti prende in una maniera incredibile. Certe volte al sublime si arriva solo nell’estrema semplicità, nel coraggio della nudità, con queste viole che accompagnano il canto. In fondo è una cosa normale, ordinaria, ma messa in quel punto e in quel modo ti apre un mondo (ricorda persino un lied di Schubert). Sembra di vedere quei quadri del Settecento napoletano in cui la Madonna con estrema tenerezza guarda al Cristo morto. Questo senso della morte vista non attraverso il Dies Irae verdiano, dove c’è una vera e propria “colluttazione” con Dio. Qui ci sono le braccia dell’Addolorata, l’espressione di pena nei suoi occhi cerchiati di nero (in quante statue pugliesi l’ho vista!). Si può intravedere cos’è la tenerezza. Paisiello è questo mondo e io ce l’ho davanti, lo sento mio.
Certo non c’è solo quello, se no per quest’ora e mezza di musica basterebbe il direttore della banda di Molfetta. È musica molto articolata, con un preciso culto del suono e del fraseggio. E che si colloca dentro un contesto musicale molto ricco. Paisiello, dopo aver girato il mondo, diventa nel 1806 primo direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, nato dall’unificazione delle quattro storiche istituzioni musicali degli orfanotrofi di “Santa Maria di Loreto”, della “Pietà dei Turchini”, di “Sant’Onofrio a Capuana” e dei “Poveri di Gesù Cristo”. C’è tutto uno studio filologico ancora da fare su questo mondo di grande raffinatezza e mestiere che pure nasce all’interno di una cornice sostanzialmente popolare. Mozart l’ha avvertito, da genio quale era e da perfetto conoscitore della lingua italiana.”
Massimo Bernardini, ilsussidiario.net, 3 settembre 2009
Quella tradizione di Napoli che tanto ha dato all’Europa di Mozart
– di Massimo Bernardini | 4 settembre 2009
Per tornare a far vivere la tradizione del teatro musicale – spiega RICCARDO MUTI – bisogna fare i conti con la sostanza drammaturgica dei libretti: dove nelle opere manca l’azione, perché ostacolata da arie statiche, è interessante riscoprire l’improvvisazione fantastica dei musicisti
Il teatro musicale
“Poi c’è la sterminata produzione del teatro musicale. Per conoscerla e farla tornare a vivere però c’è un’altra strettoia per cui bisogna passare: la sostanza drammaturgica dei libretti. La debolezza di molte di queste opere è che mancano di vera azione drammatica, a differenza di quelle scritte da Lorenzo Da Ponte per Mozart. Il re dei librettisti in quell’Europa settecentesca è Pietro Metastasio, poeta cesareo per cinquant’anni alla corte di Vienna. Autore di arie, rime, bellissimi versi scritti in un italiano stupendo, ma anche un gran… noioso: ogni cinque minuti ci mette dentro la morale, bloccando gli sviluppi dell’azione. I musicisti non erano certo facilitati: niente contrasti, movimenti ridotti all’osso. Così si abbandonavano al gusto di scrivere pezzi bellissimi su versi elegantissimi. Musica ferma, anche se meravigliosa. La gente nei palchi dei teatri faceva altro ma appena partivano le arie più famose tornava attenta per sentire come le aveva musicate il nuovo arrivato. Prendiamo “Demofoonte”, l’opera seria di Niccolò Jommelli (uno dei 73 maestri che l’hanno musicata) che ho affrontato quest’anno. Nella sua quarta versione è stata scritta per il San Carlo di Napoli nel 1770, coi nomi dei più grandi castrati dell’epoca – in primis Giuseppe Aprile – in cartellone. Mi siedo al pianoforte e li vedo, Aprile e la primadonna, la Bianchi, alle prese con queste arie infinite, difficilissime (penso per esempio al finale del Secondo Atto: Dircea e Timante in una gara di semicrome all’ultimo respiro). Vedo la loro fantastica arte dell’improvvisazione fatta di lunghe colorature e note tenute, vedo il pubblico del San Carlo entusiasmarsi o commuoversi fino alle lacrime. Penso alla bizzarria un po’ malinconica di questi coltissimi virtuosi richiesti in tutta Europa: Aprile, Farinelli. Facevano cose inaudite, come la loro famosa “messa di voce” (l’arte di far crescere una nota e di riportarla gradatamente fino al pianissimo), con l’orchestra tutta attorno, fra le candele e i fogli manoscritti svolazzanti (la buca non era ancora stata inventata). È un mondo, un intero mondo napoletano e italiano dimenticato che cerco di riportare in scena nel modo più prezioso e più vivo possibile, grazie all’impegno davvero eroico di un gruppo di giovani cantanti e dei miei ragazzi della Cherubini.
Pensateli davanti al pubblico di Salisburgo o dell’Opera di Parigi, che si accosta con grande curiosità ad autori che non conosce. Di Domenico Cimarosa e Giovanni Paisiello qualcosa sa, di Niccolò Jommelli quasi nulla, di Tommaso Traetta, grandissimo musicista, forse più importante di Jommelli, niente del tutto. Eppure quel pubblico reagisce con disponibilità. Probabilmente pensa: «C’è Muti che fa da garante» e i festival ragionano allo stesso modo. Ma poi fanno i conti: quanti biglietti venduti, quante presenze. Il pubblico francese all’inizio era perplesso: alla fine ogni sera è finita con l’applauso ritmato, che lì è il massimo riconoscimento. Cinque recite, cinque “tutto esaurito” con 2.000 posti a sera all’Opèra Garnier: 10.000 persone che hanno riscoperto Jommelli (che peraltro aveva già un busto, ormai dimenticato, all’interno del teatro).”
Aprire lo scrigno
“Il mio compito era questo: riaprire lo scrigno. Ora ce n’è per tutti. Ho cominciato tre anni fa con un’opera di Cimarosa, Il ritorno di Don Calandrino, e un noto personaggio tedesco ha detto una cosa che mi è rimasta impressa e mi conforta molto: «Dopo l’ascolto di quest’opera ho capito che Mozart non è piovuto dal cielo». E a Salisburgo sento molto spesso il pubblico dire: «Ci pare di sentire Mozart». Solo che questa musica è stata scritta oltre un decennio prima che Mozart scrivesse i suoi grandi capolavori con Da Ponte. Mozart incontra Jommelli, che ha quindici anni più di lui, nel 1772 ed è colpito dalla sua personalità e dall’importanza del Demofoonte, tanto che ne musica anche lui cinque arie. Questo mondo napoletano – e da napoletano ne sono orgoglioso – ha arricchito le biblioteche di tutta Europa. Jommelli fece carriera alla corte dei Württemberg, a Stoccarda, dove ha lasciato 26 opere e aveva costituito un’orchestra fantastica, considerata insieme a quella di Manheim fra le più eccellenti del continente, con i più grandi strumentisti dell’epoca: primo violino il livornese Pietro Nardini. Io vengo da lì, da quel mondo profondamente italiano ed europeo. La prima opera in assoluto che ho diretto – ero ancora allievo al Conservatorio di Milano – è stata L’Osteria di Marechiaro di Giovanni Paisiello, al Teatro dell’Arte. Allora il Conservatorio aveva un’orchestra “rinforzata” dagli insegnanti, e magari fra i violini trovavi Paolo Borciani del Quartetto Italiano… altri tempi. (Comunque è anche l’opera che mi ha portato al matrimonio: Cristina vi cantava la parte di Lesbina). Questo il primo approccio. Il secondo, più ufficiale, a inizio di carriera, nel ’67 a Napoli con l’Orchestra Scarlatti della Rai per due opere: una di Domenico Cimarosa: Chi dell’altrui si veste, presto si spoglia, in due atti, inframmezzata da un intermezzo di Domenico Scarlatti: La Dirindina. Regia di Franco Enriquez, protagonisti Sesto Bruscantini e Paolo Montarsolo. E non basta: come clavicembalista avevo un certo Roberto De Simone…
È un desiderio un po’ “italico” il mio, forse tipico di noi gente del Sud. Vengo da una terra di campagna, sono cresciuto tra gli ulivi delle terre di Puglia, con queste radici. Dobbiamo recuperarle per capire cosa siamo oggi e cosa saremo in futuro (già ci siamo venduti Monteverdi agli inglesi e agli olandesi, che dicono: «L’incoronazione di Poppìa» , invece che Poppea. E pensare che lui raccomandava di «recitar cantando»…).
Io nelle radici ci credo. Le radici sono sotto terra, non le vedi perché ad apparire sono solo le foglie e i frutti, ma se tagli ciò che è sotto e non si vede, l’albero alla fine muore: niente più foglie, niente più frutti. Diamo acqua a queste radici, rendiamole presenti. E soprattutto riprendiamoci questo mondo: è nostro ed è ancora vivo.”
Massimo Bernardini, ilsussidiario.net, 4 settembre 2009
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