Rassegna stampa

Quella forza nel destino di Muti

– di Gregorio Moppi | 17 gennaio 2022

Nel dicembre 1974, al Teatro Comunale, Riccardo Muti diresse La forza del destino di Verdi. Era la seconda volta in pochi mesi che maneggiava quest’opera: in settembre l’aveva fatta a Vienna. Dell’edizione fiorentina, il Maggio musicale e la RMMusic, l’etichetta del Maestro, hanno pubblicato la registrazione in tre cd, mai uscita prima.
Esecuzione maiuscola. La partitura è resa per intero, senza i tagli allora tollerati. Perfetta è la comprensione di ogni aspetto della vicenda, gli episodi tragici, quelli furenti, quelli comici, le scene di colore, le situazioni più introspettive, i quadri d’assieme dove ha una parte significativa la moltitudine di soldati, plebe, religiosi. Tutto ciò racchiuso nella coerenza di un disegno unitario che considera le differenze di carattere di ogni pagina, però senza allentamenti della tensione drammatica e tenendo costantemente dritta, dal podio, la barra dell’orchestra e del coro, che in quegli anni stavano molto maturando. 
Muti stampa subito la sua firma nella Sinfonia, salutata da un boato di battimani: corrusca, dai contrasti dinamici estremizzati tra “forti” tempestosi, terribili, e oasi liriche. Di ottimo livello il cast, dove accanto a Veriano Luchetti, tenore feticcio di Muti in quel periodo, che risolve con intelligenza la parte di Don Alvaro un po’ larga per lui, stanno un cantante signorile quale Matteo Manuguerra e l’aristocratica Orianna Santunione, ligia a ogni indicazione verdiana. Inoltre Maria Luisa Nave, vivacissima, il glorioso Cesare Siepi e un Sesto Briscantini superbo come fra Melitone, di una lepidezza mai sopra le righe.

Gregorio Moppi, la Repubblica – Firenze, 17 gennaio 2022

Stagione lirica aperta a Firenze

– di Leonardo Pinzauti | 16 dicembre 1974

La forza del destino di Verdi in edizione integrale – La concertazione di Muti è stato il fulcro determinante dello spettacolo – La compagnia di canto e alcune punte di straordinaria efficacia interpretativa – Regia e impianto scenografico – Caloroso successo

Forse non esiste fra le opere di Verdi un lavoro che come La forza del destino, mostri un tessuto narrativo d’impegno così vario e composito, capace di fuorviare, per le sue stesse caratteristiche di linguaggio, l’attenzione degli interpreti (e in primo luogo del direttore d’orchestra) e il giudizio critico globale: l’impressione costante che si ricava da ogni scena è una vigorosa evidenza di taglio, un impeto creativo che non conosce riempitivi convenzionali o puramente decorativi, ma d’altra parte, già ad una lettura al pianoforte, quel che può suscitare perplessità è appunto la marcata diversità di “generi” (come potremmo dire, con licenza di Benedetto Croce) che la musica è chiamata a risolvere in una stessa trama teatrale, dando talvolta l’impressione che esistano parti, più che necessarie sul piano drammatico, incastonate per esigenze pratiche o per dare una prova, in forme chiuse, delle innumerevoli corde che la fantasia di Verdi è capace di toccare.

TOUR DE FORCE

Si prenda ad esempio il coretto della ronda, alla scena sesta del secondo atto (che nell’edizione fiorentina figura nella prima parte dello spettacolo): “Compagni sostiamo” sembra addirittura rimandare a emozioni liederistiche, e quasi ad una castità schubertiana: e lì per lì dà l’impressione di un pezzo che mal si giustifica nel tessuto drammatico dell’opera. Ma a ben riflettere anche questa pagina, che normalmente viene tagliata, è incastonata proprio per dare verosimiglianza al successivo intervento della ronda che divide Carlo e Alvaro, dopo il terribile duettone (“No, d’un imene il vincolo”), anch’esso tagliato di solito per l’incredibile “tour de force” che sottopone i cantanti e specialmente il tenore con due pericolosi si naturali. E problemi del genere s’incontrano un po’ dovunque, specialmente quando Verdi affronta le scene d’insieme, mettendo in evidenza i caratteri di una varia umanità, e con un’attenzione che non sfuggì, come si sa, al giovane Mussorgski: tanto che di lì a pochi anni sembrerà di riascoltare, nel lamento dell’Innocente di BORIS GODOUNOV, l’eco della lezione verdiana, nella sortita del rivendugliolo, che canta: “A buon mercato chi vuol comprare”.

Insomma il problema dell’unità globale della Forza del destino si risolve sul piano critico, inquadrando quest’opera nel clima del romanzo storico italiano, in quel mescolarsi di elementi epici, popolareschi, intimistici di cui aveva dato testimonianza magistrale il Manzoni nei suoi Promessi Sposi e che probabilmente Verdi, con la sua incondizionata ammirazione per il grande poeta lombardo, ebbe più o meno consapevolmente presente: nona caso anche nella Forza del destino c’è un Padre Guardiano che somiglia a Padre Cristoforo, e c’è un sosia di Fra Galdino in Fra Melitone; ci sono duelli fatali, e abbandoni dal mistero dell’aldilà; c’è l’impeto crudele del male e la dedizione totale e misteriosa di creature infelici; e c’è anche, grandiosa, la presenza dei poveri, con una loro ricchezza irripetibile e non folkloristica. Di qui, perciò, la necessità di affrontare quest’opera proprio nell’impeto inarrestabile di un mito popolaresco, con lo stesso tipo di abbandono fantastico che è richiesto alla lettura di una ballata, dove in pratica non esistono fratture fra il reale e il fantastico, fra il vero e l’assurdo; perché quel che conta sono gli uomini e il loro mistero.

CONSAPEVOLEZZA

Non c’è dubbio che l’edizione andata in scena al Comunale di Firenze, inaugurando la stagione 1974-75 , sia stata realizzata con una chiara consapevolezza, soprattutto da parte del concertatore Riccardo Muti, della singolarità espressiva della Forza del destino; e per chi, come me, non può dimenticare la memorabile edizione di Mitropoulos, quando sembrò che quest’opera grandiosa uscisse “nuova” da un minuzioso e appassionato lavoro di spolveratura e di restauro, il legame più vivo fra le emozioni di oggi e quelle di allora è stato dato proprio dal direttore d’orchestra, che ha mantenuto costante la tensione globale del dramma, di volta in volta individuando le ragioni fantastiche dei vari episodi, con una sensibilità che non cessa di sorprendere (anche per la scaltrezza con cui sa adeguarsi alle possibilità delle voci) e con una grande sicurezza di concertazione. Che può diventare impetuosa fino al limite di sicurezza, in un accentuato giuoco di chiaroscuri e di impennate orchestrali, senza tuttavia capovolgere il naturale rapporto che deve esistere fra il palcoscenico e l’insieme strumentale. Del resto, l’enorme ovazione che ha salutato la stupenda esecuzione della sinfonia che ha dato fin dall’inizio la misura dell’ammirazione che questo giovane è capace di suscitare, e non soltanto a Vienna o a Londra.

Muti ha voluto che l’edizione fiorentina seguisse rigorosamente la partitura originale: non ci sono stati “tagli”, nemmeno i pochi che lo stesso Mitropoulos fu costretto ad accettare per motivi pratici, per non affaticare troppo le voci. Ma si deve riconoscere, da parte degli interpreti di canto, una incondizionata dedizione ai loro compiti: il tenore Veriano Luchetti, a tal proposito, è stato ammirevole, riuscendo ad adeguare la natura dei suoi mezzi vocali agli spessori, agli accenti e alla tessitura di una parte che fino a qualche tempo fa sarebbe stato ragionevole ritenere particolarmente ingrata per le sue possibilità.

Non cessa, certo, nei suoi ammiratori, il timore delle conseguenze che questi impegni nel “drammatico” possano avere sulla sua efficienza di interprete duttile e sensibile e sul bel timbro della sua voce; ma il risultato della sua interpretazione è stato in genere di indubbia efficacia musicale.

Non minore l’impegno di Orianna Santunione, che è cantante di ricchi mezzi vocali, capace di impennate drammatiche di rilievo; le mancano certi abbandoni lirici, una più intima e dolce emozione di canto, quasi avesse preoccupazioni tecniche (non giustificate, in concreto, dalle condizioni della sua voce) specialmente nel “legato”, nella tessitura acuta e nella duttilità dei portamenti. Quando alla figura di Preziosilla, essa ha trovato in Luisa Nave una cantante dotata d’istinto e di buona voce (non molto vigorosa), vivace sul piano scenico e di bell’aspetto: purtroppo però con una dizione non chiara e qui invece particolarmente necessaria all’evidenza drammatica del personaggio.

Se dovessimo indicare l’interprete più straordinario della serata dovremmo fare il nome di Sesto Bruscantini: della parte di Melitono è difficile immaginare una realizzazione più intelligente, arguta, piena di risvolti psicologici, oltre che del fascino di una sicura e pungente musicalità e di una impeccabile pronuncia. Ma accanto a lui uno splendido Padre Guardiano è stato Cesare Siepi: la sua voce, se è diminuita d’intensità nel registro più acuto, ha conservato la nobiltà inconfondibile del timbro, e i suoi accenti espressivi fanno tutt’uno con personaggio, in una rara misura stilistica, sorretta sempre da una dizione ricca di inflessioni e da una scaltra tecnica. E’ poi da sottolineare la prestazione del baritono Matteo Managuerra, che nella parte di don Carlo si è imposto per prestanza di mezzi vocali e per un professionalismo sicuro ed appassionato, di eccellente efficacia drammatica anche per l’ottima dizione. E un elogio va fato alla musicalità di Dino Formichini, nella piccola parte del Rivendugliolo, e alla convinta partecipazione di Carlo De Bortoli (marchese di Calatrava) e di Guerrando Rigiri (chirurgo); e inoltre a Giuliana Matteini, Ottavio Taddei, Augusto Frati e Aldo Reggioli.

IL MEGLIO DI SE’

Sotto la guida di Muti l’orchestra ha dato il meglio di sé, con varietà d’impasti e omogeneità d’intonazione. Il coro, istruito da Roberto Gabbiani , ha avuto un rilievo protagonistico nella celeberrima pagina della “Vergine degli Angeli”, importato su una morbidezza d’insieme che raramente era apparsa così efficace, suscitando i convintissimi applausi del pubblico.

Quanto all’impianto registico e scenico, dovuto rispettivamente a Luigi Squarzina e Pier Luigi Pizzi, esso ha dato vita a soluzioni originali di alcuni episodi: le qualità pittoriche di Pizzi erano evidenti, ad esempio, nel “recupero” colto che contribuiva al fascioni della vasta scena del villaggio di Hornachulos, nell’impianto del quadro poderoso del convento (reinventato, ma felicemente, rispettato alle didascalie dell’opera) e nella suggestione romanzesca del “santo speco”; mentre si avvertiva una certa discrepanza fra la raffinata piacevolezza di queste scene e l’impianto un po’ sommario (anche se pittoricamente più intenso) del quadro del duello all’alba. Dal canto suo Squarzina ha curato le scene di insieme, tenendo conto del contributo illustrativo della coreografica di Luciana Novaro, di notevole vivacità; ma non potremmo dire di aver avvertito una particolare scaltrezza di soluzioni, una continuità del tono narrativo, una presenza interpretativa, insomma, nei punti nodali più difficili del dramma come la cosiddetta scena della battaglia e quella del “rataplan”.

Pubblico enorme, e caloroso successo, con numerose interruzioni anche a scena aperta. In particolare a Luchetti dopo “O tu che inseno agli angeli”. Ammirevole, in orchestra, l’”a solo” del clarinetto all’inizio del terzo atto, e come sempre molto accurato l’allestimento scenico a cura di Raoul Farolfi.   

IL VERDI DI MUTI ESCE LUCIDISSIMO

– di Lorenzo Arruga | 16 dicembre 1974

Un tale dall’accento fiorentino aveva detto all’entrata: “Amici quando all’una di notte ascolteremo l’ultima frase dell’orchestra, mondo cane, tireremo un sospiro di sollievo; anche quest’anno ce l’avremo fatta ad aprire”. Era un pensiero giusto: nella situazione d’emergenza dei teatri d’Europa, questo di Firenze, tra i più travagliati e orgogliosi, supera di slancio i problemi di fondo e problemi di fondi, e riesce a combinare un accordo con Vienna, per cui ecco qui uno dei più acclamati spettacoli dell’anno, una straordinaria Forza del destino.

Anch’io ci penso, adesso, e con ammirazione. Ma l’altra sera all’una di notte ero preso da tutt’altro: troppo raccolta ed emozionante, troppo purificante, era proprio quell’ultima frase, con un colore d’archi indifeso e scarno, punto d’arrivo d’un’interpretazione musicale esatta e coerente. Troppo in quel punto tutta l’opera si radunava nella mente. I personaggi della vicenda avventurosa e tragica, posseduti da un’intera follia, che s’inseguono e si ritrovano sempre diversamente dal voluto, inseguiti a loro volta dall’assurda violenza del destino. Il mondo attorno, quello fatto degli infiniti luoghi teatrali romantici europei che Verdi presentava con fulminee immaginazioni a Pietroburgo, 111 anni fa.

Per Riccardo Muti però quel mondo non è un giuoco teatrale solamente, e non una stupenda passerella. E’ una fantasia lucidissima e stravolta, dove le interne verità dei personaggi si provano, si incontrano, si accettano soltanto in quell’alternativa che Verdi a malincuore non riusciva a rifiutare dal Manzoni; o l’impetuoso interrogativo alla Provvidenza, o l’autodistruzione. Almeno così pare d’avvertire ascoltando la lettura drammaturgica che prestigiosamente conduce dove le passioni s’accendono febbrili, le frasi ampie o stupefatte di preghiera si pongono salde e spaziate, e tutto il resto è come percorso da un continuo accendersi e venir meno.

Nella loro luce inquieta s’affacciano così i personaggi, vittime del destino alla ricerca di se stessi: Leonora fremente e trepida (Orianna Stanunione), o Preziosilla disincata (Luica Nave), o il Padre Guardiano stanco e paziente, distante dalle cose dell’amaro mondo (Cesare Siepi). L’apertura dei tagli ha messo ancora più in luce la patetica violenza autodistruttrice dei due che s’inseguono fino alla fine. Don Alvero (Veriano Luchetti, in gran forma) e Don Carlos (Matteo Managuerra, nobile). Gli interpreti l’hanno assecondato generosamente; si è imposto con classe sopraffina, con malinconia appena appena toccata, con presenza scenica insuperabile, Sesto Bruscantini.

Le scene di Pier Luigi Pizzi hanno contribuito a render chiare la visione: un mondo come rimpicciolito, dove i personaggi sono sempre raccolti; un mondo di pochi colori dove tutto pare perennemente chiuso da una parete, e invece s’apre continuamente a spazi vasti che presto sembrano ancor più piccoli. Con due idee ragguardevoli: lo speco, luogo dove approdano i due atti, la prima volta per il canto della Vergine degli Angeli, speranza comune, la seconda per la morte e la solitudine sulle soglie d’un infinito che ancora non può rispondere. E ancora più sarebbe stata evidente l’interpretazione unitaria, se la regia di Luigi Squarzina non avesse mirato ad un decoroso impianto d’immagini teatrali, e avesse invece seguito i suggerimenti musicali: sopra tutto nella scena della zingara, dove genialmente Muti tutto riunisce, dalla apparizione dei pellegrini a quella delle facili vivandiere, in un demoniaco musicale, che le patetiche scocciature e l’inquieta ascensione dei ritmi suscitano indimenticabilmente: è il mondo che è così.