Riccardo muti and leoncavallo

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Interview with Riccardo Muti:

Muti, ritorno a Firenze: «Qui per me è nato tutto»

Erano anni in cui a Firenze Il Flauto magico non si poteva fare perché considerato massonico, e il comunistissimo Luigi Nono ritirò la sua opera, Intolleranza, perché il teatro voleva accostarlo a Il console del vituperato Menotti, lontano dall’ideologia dominante; erano anni in cui l’Orchestra di Madrid, in tournée in Italia, fu boicottata perché si era in pieno periodo franchista. E quando al direttore artistico Roman Vlad, intellettuale troppo libero, venne in mente di portare in scena Cavalleria Rusticana, volarono gli stracci, ci fu un consiglio d’amministrazione straordinario e siccome alcuni componenti erano gli stessi di Palazzo Vecchio, trascinarono la protesta al Comune. Erano gli anni in cui il direttore musicale del Maggio Fiorentino era Riccardo Muti. Incarico che ricoprì dal settembre 1969 all’ottobre 1981 (nel mezzo ci sono i debutti alla Scala, al Festival di Salisburgo per volontà di Karajan, col Don Pasquale, sul podio dei Berliner…). Il suo primo concerto a Firenze avvenne nel ’68. L’11 luglio il grande direttore festeggia il cinquantenario dal suo debutto dirigendo all’Opera di Firenze i complessi del Maggio nel Macbeth di Verdi in forma di concerto. Muti all’epoca aveva 27 anni, sovrintendente era Remigio Paone, detto «pavone», ma dietro la malizia per la sua debolezza nei confronti della mondanità si celava un sovrintendente coi fiocchi.

Che tipo era Paone?

 

Come andò l’incontro con Richter?

«Era autunno, pioveva e mi invitò alla Chigiana di Siena. Fu un incontro musicale. Tra due pianoforti gran coda, si ergeva Richter. Portai le partiture, lui mi chiese di suonare la parte dell’orchestra. Io da buon napoletano avevo subodorato la ragione di quella mattinata, mi ero preparato il programma del concerto che avremmo dovuto tenere: Mozart e Britten. Suonammo insieme Mozart, lui non pronunciò una parola. Si limitò a dire: Ora Britten. Alla fine, rivolto all’interprete, disse: se dirige come suona accetto di collaborare con lui».

Spostiamoci con il ricordo dalla Chigiana a Firenze.

«Ci rivedemmo nel febbraio 1968 e iniziammo le prove con l’Orchestra del Maggio. Non c’era direttore musicale né un direttore artistico, Paone era sovrintendente uscente. C’era solo il segretario artistico di nome Manieri. Era un teatro senza vertici. L’atmosfera era caotica, si discuteva di quale fisionomia dare al festival, aleggiava una minaccia di sciopero. Io venivo da studi severi, Vitale a Napoli, Bettinelli a Milano. Rimasi sconcertato dalle turbolenze e dal chiasso alla prima prova».

Dunque?

«La mia reazione fu decisa, non mi feci sopraffare ma imposi la necessità di un ordine. Alcuni musicisti ricordano il mio modo di ricomporre la situazione, questo atteggiamento sconcertò alcuni ma convinse altri che forse avevano trovato nel giovane direttore colui che poteva ricomporre le file e rimettere chiarezza al caos. Si creò una bella intesa musicale, rispetto e simpatia. Quando le cose stavano andando in porto, fu annunciato lo sciopero e i concerti vennero annullati».

Come reagì Paone?

«Paone, da impresario dal fiuto lungo, non volle perdere l’occasione col grande Richter e col giovane vincitore del Concorso Cantelli, e spostò il concerto al Festival del Maggio. Quando tornai l’atmosfera era cambiata, le prove si svolsero in modo sereno e i concerti ebbero un successo straordinario. Il critico in sala, l’unico presente, Leonardo Pinzauti, scrisse: il concerto è stato diretto da un certo Muti, che non conosco, ma questo giovane potrebbe risolvere l’annosa questione del direttore musicale».

Come proseguì il suo rapporto con Firenze?

«Paone mi riconfermò per la stagione successiva, diressi il Concerto per clarinetto di Mozart, solista era il primo clarino del Maggio, Detalmo Corneti; nella seconda parte il poema sinfonico Dall’Italia di Richard Strauss. Piero Farulli, grande violista del Quartetto Italiano e membro del Consiglio d’amministrazione del Maggio, seguì in un palco del Comunale tutte le prove. Mi venne offerta la direzione musicale del Maggio, accettai, lasciando l’insegnamento al Conservatorio di Milano. Cominciando a guadagnare qualcosa, potei sposarmi con Cristina e prendere casa, a Firenze, in via Rucellai 15».

Com’era?

«Era una casina rosa, fa ancora parte della canonica della Chiesa anglo-americana, dietro l’hotel Villa Medici. Lì sono nati e cresciuti due dei miei tre figli, Francesco e Chiara. Dovetti acquistare un pianoforte e andai al negozio di Ceccherini. Mi presentai: sono il nuovo direttore del Maggio. Comprai un piano tra i meno costosi che, non avendo una lira, pagai in due anni a rate. È il pianoforte che ho ancora in studio nella mia casa di Ravenna. Oggi che potrei permettermi uno Steinway, non oso abbandonare il mio vecchio amico, su cui studio da cinquant’anni».

Il suo Maggio lo aprì con la ripresa de I Masnadieri di Verdi, regia collaudata di Erwin Piscator.

«Il mio vero debutto fu nel 1971 con L’Africana di Meyerbeer. Era l’esordio in Italia di Jessye Norman, la regia di Franco Enriquez. Roman Vlad, che al Maggio è stato un grande direttore artistico, concepiva programmi di grande respiro. Io rimasi perplesso, anche se mi ero già cimentato con un titolo raro come l’Agnese di Hohenstaufen di Spontini e non ero nuovo a proposte fuori dalla norma. Ma rimaneva la mia perplessità su Meyerbeer. Una sera d’inverno del 1970 sentii bussare alla porta. Aprii. Era Roman Vlad col suo immancabile Montgomery color cammello e uno spartito. Senza dirmi nemmeno buonasera, si diresse al pianoforte e cominciò a suonare e a cantare i brani dell’opera».

Risultato?

«Lasciò la mia abitazione avendo ottenuto la mia approvazione. Ecco cosa vuol dire essere un grande direttore artistico. Una settimana dopo L’Africana, Claudio Abbado con la regia di Ponnelle diresse La Cenerentola. Questo per dire il peso che aveva il Maggio Fiorentino».

Lì nacque la leggenda di Abbado di sinistra e di Muti di destra?

«Io non sono mai stato di destra o di sinistra. Sono indipendente e forse in quel periodo non appartenere a certa consorteria significava essere dalla parte opposta: se non sei con noi sei contro di noi. Ho sempre avuto un bel rapporto con i vari sindaci e con la città, che mi ha accolto quando ancora non ero nessuno, lo dissi nel 2004, dallo stesso podio che mi aveva visto esordiente, a un concerto in tournée con la Filarmonica della Scala. Ci fu un momento in cui, eletto un primo cittadino della Dc, mi fu detto che bisognava nominare un direttore artistico socialista o comunista. Io rimasi inorridito».

Cinquant’anni dopo, che giudizio dà del ’68?

«Mi rendevo conto della necessità di cambiamento che il ’68 reclamava, questa rivoluzione portò a cose negative e positive; oggi facciamo i conti con l’eredità negativa e non con quella positiva».

Lei fa appelli da anni a favore della musica e del suo insegnamento nelle scuole.

«È da cinquant’anni che faccio appelli! Ho visto avvicendarsi tanti governi, di tutti i tipi e colori, e ministri della Cultura di vario spessore. Dario Franceschini si è speso molto per l’evoluzione e il progresso della nostra cultura. Ma se dovessi dire quanti uomini ho visto ai concerti e alle opere, a parte le serate di rappresentanza e le inaugurazioni di stagione, si conterebbero sulle dita di una mano. L’Italia è il paese della musica: rischia di diventare il paese della storia della musica. È una sciagura che abbia abdicato al suo passato».

Tornando agli anni fiorentini: c’era la follia che caratterizza il mondo dell’opera?

«Eccome! C’è un episodio che non ho mai raccontato. Il grande mezzosoprano Fedora Barbieri un giorno si presentò a casa mia, non ci conoscevamo personalmente, si sedette sul divano e mi perforò l’udito cantando a piena voce la famosa parola di Quickly nel Falstaff: Reverenza! Poi sul mio volto sbalordito mi disse: lo vede che posso ancora cantare? Fece una tardiva audizione, un episodio un po’ grottesco. Poi ci fu l’episodio di Cavalleria e Pagliacci, un’abbinata voluta da me e da Vlad. Questa fu una follia di carattere politico. Non sapevamo che proporre quelle due opere in un clima post-sessantottino significava, per alcuni personaggi, fare una proposta anticulturale e conservatrice. Fino al punto che sull’argomento ci furono agitate sedute non solo al Consiglio d’amministrazione ma a Palazzo Vecchio, per contestare la messinscena di titoli che fanno parte del grande repertorio verista, ed eseguite in tutto il mondo, anche da un direttore sofisticato come Karajan».

Come andò a finire?

«Io e Vlad passammo giorni difficili, fummo quasi messi alla gogna da un certo mondo politico e culturale. Comunque vincemmo, si andò in scena (regia di Bolognini, scene di Damiani) avendo nei Pagliacci un tenore come Richard Tucker, che Toscanini aveva avuto nell’Aida. Quella sera avvenne un fatto singolare».

Cioè?

«All’inizio di Cavalleria, al momento in cui Turiddu canta La Siciliana, si sentirono passi rumorosi avanzare in scena. Un uomo con l’impermeabile sdrucito arrivò fino alla buca del suggeritore e di fronte al pubblico incredulo esclamò: Cittadini fiorentini, mentre qui si fa musica e ci si diverte, negli ospedali di Firenze si muore per eutanasia. Ci fu un boato contro quell’individuo, il sipario si chiuse, lui trascinato fuori, decidemmo di riprendere la recita dall’inizio, tra il disappunto del tenore Gianfranco Cecchele che, stando dietro la scena, si domandava se avesse cantato così male».

Sembra una barzelletta!

«Le incomprensioni, in quegli anni di passioni, potevano essere anche più amare. Tornando alle ingerenze politiche, riconfermai con un telegramma che se il teatro avesse espresso come direttore artistico una persona per appartenenza politica, mi sarei dimesso. Un violoncellista, Pellegrini, lo riferì all’Orchestra, che era in prova. Si diffuse la notizia: Muti si è dimesso! Si alzarono e se ne andarono di colpo, lasciando da solo sul podio il direttore che, essendo straniero, non capì nulla e pensò a cosa avesse fatto di male per aver provocato quella reazione. Era qualcosa che nemmeno Fellini avrebbe immaginato. Dopo due mesi di sciopero, il direttore artistico non si insediò, ci fu un ribaltone, nominato un commissario e varato il Maggio. Siamo nel ’74, Agnese di Hohenstaufen con regia di Enriquez e scene di Corrado Cagli. Era il periodo dei concerti in decentramento, a Volterra portammo i Quattro pezzi sacri di Verdi, con duecento persone sul palco e trenta in sala».

Erano gli anni delle prime dirompenti regie di Luca Ronconi, ma anche del ritorno a scenografie di grandi artisti, che per il Maggio è la ragione della rinomanza internazionale delle origini.

«Ricordo l’Orfeo ed Euridice di Gluck allestito da Ronconi, che rivoluzionò il teatro d’opera nella sua concezione non accademica, ma rispettosa della musica: Orfeo e Euridice indossavano lo stesso abito, solo che, lui di colore nero e lei bianco, diventavano uno alter ego dell’altro; il palcoscenico era ricoperto di scatole fatte di specchi, con un cipresso in fondo. Una regia semplicissima ed efficace, con le scene di Pier Luigi Pizzi, meravigliose. Ronconi fece altri spettacoli straordinari, poi ci fu il suo Nabucco risorgimentale con il protagonista nei panni di Vittorio Emanuele, oggi sembrerebbe datato: allora provocò la ribellione, uno gridò: Ronconi in Arno! Ricordo Le nozze di Figaro di Antonio Vitez, alla sua prima regia in Italia, il successo fu la ragione che spinse Karajan a invitarlo per il Così fan tutte a Salisburgo. Ricordo Ifigenia in Tauride con le scene di Giacomo Manzù: eravamo seduti sulle scale del rimpianto Comunale di Firenze, mi chiese di raccontargli la trama e intanto prese un foglio bianco e cominciò a disegnare una specie di medaglione, che poi è comparso nella scenografia. Ricordo l’Otello con la regia di Miklos Jankso e le scene di Enrico Job, nel finale del primo atto, quando Otello dice a Desdemona “Venere splende”, dalla parte destra del palco, sotto un’arcata, avanzava con una lanterna in mano una donna completamente nuda: era l’immagine della bellezza, poetica, per niente provocatoria, alla Balthus. Ma la notizia durante le prove si diffuse, ci fu una riunione dl Cda, un nudo in scena figuriamoci (oggi una cosa del genere non fa più scandalo) e dovemmo rinunciarvi, ingiustamente aggiungo io».

Come fu accolto a Firenze?

«Con affetto, come un cittadino dell’Italia. A Firenze, per me, è nato tutto, andai via solo perché non potevo tenere incarichi stabili in altre due città, Londra e Philadelphia: era troppo. Quando mi recai in tournée con la Filarmonica della Scala, nel 2004, al pubblico del Comunale dissi ciò che le ho detto all’inizio della nostra conversazione: avete creduto in me quando ancora non ero nessuno. Ho una profonda gratitudine verso Firenze».

Valerio Cappelli, Corriere Fiorentino, 9 Luglio 2018

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