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Audio Preview: Aria “Vieni tra queste braccia”
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Audio Preview: Aria “Vieni tra queste braccia”
Firenze, Teatro Comunale, December 1st 1970
Conductor: Riccardo Muti
Orchestra and Chorus of the Maggio Musicale Fiorentino
Chorus Master: Adolfo Fanfani
Lord Gualtiero Valton, Graziano Del Vivo
Sir Giorgio, Agostino Ferrin
Lord Arturo Talbo, Nicolai Gedda
Sir Riccardo Forth, Sesto Bruscantini
Sir Bruno Roberton, Valiano Natali
Enrichetta di Francia, Flora Rafanelli
Elvira, Cristina Deutekom
Total running time: 3 hours
℗ © 2018 Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
– di Maurizio Modugno
Firenze e quel «nido di memorie» che è stato il suo Teatro Comunale, son luoghi cui I Puritani di Bellini restano debitori: dalla mitica e «scandalosa» edizione del 25 maggio 1933, diretta da Serafin, con Lauri Volpi, Pinza, Basiola e la Capsir, ma soprattutto con le scene e i costumi di Giorgio De Chirico (all’epoca contestatissimi, da anni iscritti fra i capolavori della messa in scena e oggetto di mostre e studi a non finire); all’edizione qui recensita, invero superba.
Riprova che gli intuiti di Roman Vlad (per Firenze, dicembre 1970) e di Francesco Siciliani (per Roma, luglio 1969) quanto a quel giovane ardimentoso che rispondeva al nome di Riccardo Muti, non s’erano di certo sbagliati. E proprio nell’affidargli tra l’altro – per il Foro Italico prima, poi per il Comunale – una partitura di eccezionale complessità quale I Puritani di Bellini. In entrambe le produzioni, i cast erano di metallo prezioso, opponendosi Pavarotti e la Freni a Gedda e alla Deutekom, mantenendo Bruscantini prima e dopo, mentre a Giaiotti succedeva Ferrin. Edizioni di qualità altissima l’una e l’altra. Noi da sempre prediligiamo la seconda, ma solo per qualche millimetro e non tanto per questioni di perfezione formale (se Pavarotti e la Freni incappano in un incidente, anche Gedda ne sfiora uno), quanto di forza teatrale e di emozione interpretativa. Nessun direttore, per entrare subito in argomento, è mai riuscito in tutta la prima scena – con i suoi richiami, con i suoi echi, con i suoi effetti di lontananza e di vicinanza, di luci ed ombre, con la sua stupenda nobiltà cavalleresca – ad evocare in modo tanto vivo La ronda di notte di Rembrandt, a far della grande pagina belliniana un quadro di sublime imponenza, che è musica e pittura al tempo stesso. Muti, poi, a neppur trent’anni, ha un senso naturale del tempo giusto, del tempo di Bellini, intendiamo, di quelle incantate lentezze da cui il canto scaturisce e su cui insieme s’appoggia come su una nuvola di suono che lievemente si muova. Sì che, soprattutto a Firenze, un’atmosfera d’onirica astrazione pervade la partitura, rendendola un autentico reˆve d’amour. Perchè poi, in fondo, I Puritani, non son
altro che un idillio amoroso di ineffabile dolcezza, di poesia degna d’un Leopardi o d’un Byron o
d’un Keats o d’un Lamartine. Ove poi non manca, al bisogno, un robusto piglio araldico, una gagliardia quasi di cappa e spada, ma eccezionalmente blasè (pensiamo naturalmente al duetto dei due Sir), sottratta qui con decisione ad ogni allure popolaresca e grossière.
Edizione, l’una e l’altra, dunque, di riferimento quanto a direzione d’orchestra.
Ma straordinaria anche quanto a parterre vocale, questa fiorentina. Per Nicolai Gedda anzitutto: tre almeno le edizioni dell’opera con lui, in studio con la Sills (e forse ineguagliabile); con la Sutherland a Philadelphia (sontuosa) e questa fiorentina. Ove il canto belliniano vien da lui analizzato fin nei più sottili dettagli, ove il legato e il sostegno del suono sembrano portare la voce a fluttuare nell’aria con magica leggerezza. «A te, o cara», «Credeasi misera», «Corre a valle, corre a monte» restano pagine da antologia. Né si dimentichi la fierezza dell’accento, l’ampiezza di certi fraseggi al calor bianco, la rifinitura anche della frasi più aggressive e battagliere. Così come la non semplice fusione con il timbro singolare della Deutekom, che pur al quasi totale riesce, in modo imprevedibile e proprio per l’irrefrenabile propensione virtuosistica d’entrambi. Lei – alla fine abituatisi al timbro esotico – è un’Elvira mirabolante, con delle improvvise, travolgenti espansioni sonore, con agilità singolari, ma infallibili, con un’astrazione e insieme un pathos espressivi che la pongono in totale coerenza con Muti e con Gedda. Da non dimenticare in qualsiasi discografia dell’opera, pur in un angolo a sè .
Sesto Bruscantini è sir Riccardo sia a Roma, che a Firenze. Con la sua voce, certo un po’ arida e legnosa, ma (soprattutto a Roma) con una civiltà di canto, di stile, d’espressione, che hanno pochi confronti al suo e al nostro tempo. Ferrin (sir Giorgio) non eguaglia Giaiotti, ma è qui, come sempre, cantante di pregevole dignità d’accento e di timbro. Tra lui e la Deutekom, ad esempio, il duetto «O amato zio» rimane un po’ freddo. Bravissima la Rafanelli, quale altera Enrichetta.
Spettacolo nello spettacolo, gli applausi: e quelli per Gedda rischiano di fermare talora la recita. E pensare che un famoso critico, pace all’anima sua, l’aveva «in gran dispitto»: ma non per I Puritani, dei quali lo disse interprete avvertito storicamente quanto nessun tenore del dopoguerra.
Maurizio Modugno, Musica
– di F. Ermini Polacci
Prende il via con I Puritani di Bellini, ripresi live al Comunale nel 1970, la «Riccardo Muti Edition» della collana Maggio Live. Una serie di registrazioni che ripercorreranno, nel 50° anniversario del debutto fiorentino di Muti, le principali tappe di un percorso artistico attraverso materiali d’archivio scelti personalmente dal Maestro. Il quale qui non aveva ancora trent’anni, ma rivelò una sorprendente maturità interpretativa, vuoi nel passo incalzante e teatralissimo della direzione, vuoi un’espressività ben giocata fra perentoria drammaticità e aperture liriche.
Una lettura incandescente, vissuta con slancio più che con spolvero tecnico dai complessi del Maggio. E dagli esiti trionfali, come testimoniato dall’entusiasmo del pubblico, grazie anche al virtuosismo stellare di Cristina Deutekom, allo smalto di Nicolai Gedda, alla nobiltà di Sesto Bruscantini, alla bravura di Agostino Ferrin.
F. Ermini Polacci, Corriere Fiorentino
– di Gregorio Moppi
Fu amore a prima vista tra il ventisettenne Riccardo Muti e l’orchestra del Maggio. era il 1968. Appena salito sul podio, gli strumentisti capirono che non dovevano lasciarselo scappare.
Perciò lo vollero come loro bacchetta principale. A mezzo secolo di distanza la collana discografica Maggio Live – insieme all’etichetta Riccardo Muti Music – celebra con tre uscite quel sodalizio durato un decennio, e tutt’oggi rammentato come una fase epocale nella storia del Teatro Comunale. Il primo capitolo del trittico è un doppio cd con I Puritani di Vincenzo Bellini registrati il 1° dicembre 1970.
Reperto prezioso in sé, ma soprattutto testimonianza utile a comprendere l’impianto rivoluzionario delle letture del melodramma ottocentesco condotte da Muti – in raffronto alle pratiche teatrali di quegli anni, quando a contare era spesso il rapporto con la cosiddetta “tradizione” e al direttore competeva poco più che accompagnare i cantanti. Muti non ci sta. Non accompagna le voci: le guida e ci dialoga, come se tutti stessero facendo musica da camera. E non lascia l’orchestra nello sfondo. La strumentazione belliniana assume rilievo aggettante, morbido, corposo.
Una rivoluzione esecutiva ispirata al rispetto della partitura: ciò che continua a distinguere ogni interpretazione di Muti. Nel cast, che cerca la definizione dei personaggi attraverso la venustà del canto, Cristina Deutekom, Nicolai Gedda (impeccabile, a parte l’acuto di “A te, o cara” scheggiato), Sesto Bruscantini e Agostino Ferrin.
Gregorio Moppi, Repubblica Firenze
– di Giovanni Gavazzeni
Qui la voce sua soave, canto disperato di Elvira, folle per amor spezzato, «divina melodia belliniana, accorata come un fiore che appassisce e allora dà il suo profumo a fior di labbra» è un «inesauribile arabesco che non ha mai fine». La scena della follia dei Puritani trasportò un grande critico d’arte (tenore per diletto), Cesare Brandi, in uno stato di estasi («il miracolo di una voce che squarcia il silenzio, e sono prati in fiore, il mare tranquillo, le notti piene di stelle, le lucciole nel grano»).
Quasi un trip sonoro in un’epoca in cui la contestazione affogava nell’eroina e negli estremismi. In uno stupendo elzeviro sul Corriere della sera (Canta, Cristina!), Brandi riferì dei Puritani ascoltati al Teatro Comunale di Firenze (1970), in cui Elvira era «Cristina Deutekom, figura da gentile vitellina frisona, con un fiato senza fine», la quale dava a quella melodica «il tono del tramonto e delle prime brume della sera». Brandi e il pubblico fiorentino (come ha fatto l’ascoltatore odierno di questo inedito live) si innamorano anche della forza di convinzione con cui l’allora ventottenne Riccardo Muti aveva curato l’ultima partitura di Bellini. Tutto si tiene: i chiaroscuri e gli echi stereofonici dell’inquietudine romantica, che già guardano avanti; il clima denso di oscuri presagi che precede la scena della follia; l’apoteosi finale, guadagnata come la luce dell’amore che gradualmente illumina i promessi sposi ritrovati. E la classe degli accompagnamenti (i pizzicati, plastici esatti, scanditi) c’è non solo quando canta la mirabile Cristina, ma anche insieme all’elegante fraseggiatore Nicolai Gedda (Arturo), alla franca sanità delle voci virili scusa – Sesto Bruscantini (Riccardo) e Agostino Ferrin (Giorgio) – alla falange corale fra presagi e nembi di sventura e baldanza guerriera dell’inno puritano.
Si può solo concordare con Brandi, che concludeva:
«Quando il tempo del canto coincide col nostro, e la bacchetta del direttore comanda a bacchetta anche noi: questa è droga, bella e buona, ma felice droga. (…) Ci lascia un’orma come se nella cenere del focolare spento, a Natale, un angelo fosse venuto a piedi nudi per riempirci di doni, noi bambini, che paurosamente non siamo più bambini, anzi sull’orlo di un’atonia peggiore della morte».
Giovanni Gavazzeni, Il venerdì di Repubblica
– di Aldo Nicastro
Ad uno che, come il sottoscrittore di questa noterella, ha già valicato la soglia degli “anta” sarà concesso di fare per una volta il suo mestiere, che è quello del vecchietto, e dunque di ricordare la data di questi Puritani fiorentini come uno dei tantissimi momenti felici inscritti nella sua memoria. Si era verso la fine del 1970 e il Comunale di Firenze mise in scena l’ultima (e per me più fausta) opera del Catanese con un team musicale di egregia specie guidato dall’ancor giovane ma già autorevolissimo Riccardo Muti. Ho perso il conto degli appuntamenti da me consumati entro il teatro del capoluogo toscano insieme ad amici ormai di lunga data, Giorgio, Cesare, Beppe, Daniele, e quelli con Muti furono una gran quantità; ma questi Puritani figurano tra le perle dell’intera produzione nazionale di quel periodo. Dirò subito cosa del Maestro fin d’allora mi attrasse: non tanto il miglior rilievo concesso all’orchestra, che era nei patti, quanto la facoltà di connettere quella propensione naturale ad un senso profondo della narrazione.
Ogni istante musicale pareva insomma sortire dal proposito di far delle note il complemento e insieme la spiegazione di un “fatto” raccontato, con le sue pause e i suoi apici emotivi; e questo saggio belliniano ne riluceva in modo tassativo, fra il sostegno alle voci, il tono stilisticamente appropriato e specialmente l’abilità di suggerire una suggestione dei piani e degli spazi sonori di feconda bellezza. Ma l’operazione contava al suo attivo altresì la giustezza del contributo vocale, che in un’opera di estrema difficoltà quale quest’ultimo Bellini è imprescindibile affatto: si dice soprattutto della parte di Arturo, seconda per asprezza solo a quella di Arnoldo nel Tell rossiniano, che ebbe in Nicolai Gedda un cantore oggi forse irraggiungibile. Nella nota di copertina dei due cd Daniele Spini ci narra del lievissimo incidente occorso al tenore svedese durante il suo iniziale “A te o cara”, ma ciò ammesso per dovere cronachistico basterà, ora che il disco ce lo consente, soggiornare nei pressi del terzo atto dell’opera per capire cosa si intendesse davvero per tenore eroico: voce squillante e adamantina, idoneità dello stile, manovra dei fiati, vis epica. “Ella è tremante” con quel che ne segue fu una lezione di canto di cui, dopo Gedda, si son perse un po’ le tracce. Ma non demordeva invero la partner femminile, una Cristina Deutekom capace di sorreggere il canto virtuosistico di Elvira con una sorta di lacrima interiore che la teneva lungi dal coccodeismo solito. E in quanto al rimanente, pochi sono nell’attuale arengo i baritoni in grado come il Bruscantini d’allora di dar patina di nobiltà a un personaggio quale Riccardo Forth; e per finire anche a una voce di dimensioni non eccelse come quella del basso Agostino Ferrin il buon cantare consentiva di offrire nella parte di Giorgio Valton un apporto di varietà all’insieme. Va da sé che il pubblico fiorentino reagì all’evento con una dose di entusiasmo ben documentata dai due dischi. Per noi, leopardianamente, è il canto mai affievolitosi delle ricordanze.
Aldo Nicastro, The Classic Voice
– Matthew Gurewitsch | February 2, 2021
Riccardo Muti, who turns 80 this year, needs no introduction. Yet many of his historic live performances have been hard if not impossible to access until their recent release on the Riccardo Muti Music label, distributed through his website. From Vincenzo Bellini’s bel canto historic fantasy I Puritani, we prioritzed set pieces for the heroine, Elvira, sung by the Dutch soprano Cristina Deutekom in shimmering tones and limpid phrases blessedly free of affectation. Muti’s tempi are strict yet by no means rigid: the carnivalesque ensemble “Son vergin vezzosa” dances on air; the elegiac cantilena “Qui la voce” suspends time without ceasing to flow. The martial “Suoni la tromba,” for dueling basses, saw us off in a contrasting heroic mode. Captured live in Florence in 1970, the performance already epitomizes the qualities the world still treasures in Muti: the clarity of intention, the refinement of palette, the dedication to the expressive essence.
Matthew Gurewitsch, Pundicity, February 2, 2021
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